domenica 18 luglio 2010

RESISTERE AGLI URTI


A chi, in questa società sempre più precaria,
conosce il senso di precarietà e di crisi,
a chi lotta e resiste, gioca, cade e si rialza,
a chi sa che ogni giorno è buono per imparare a vivere


Resistere agli urti. Riorganizzare positivamente la propria vita.

Esiste una parola poco usata nella lingua italiana ma presente nella lingua francese (résilience) e inglese (resilience) a cui ultimamente le scienze sociali stanno dando molto rilievo: resilienza. Il vocabolario italiano definisce questo termine, che appartiene alla Fisica, come resistenza di un materiale a urti e alla rottura senza spezzarsi (Lo Zingarelli, Zanichelli, Milano, 1995). La resilienza è un termine che risulta patrimonio comune delle discipline umanistiche, tecnologiche, economiche, ecologiche, biologiche: in ingegneria la resilienza definisce la capacità di un materiale di resistere a sollecitazioni impulsive; in biologia e in ecologia umana equivale alla capacità di un sistema di auto-ripararsi, di ritornare a uno stato di equilibrio in seguito a una perturbazione; nelle scienze umane il termine in questione esprime la capacità di fronteggiare un qualsiasi evento critico, si collega ai concetti di benessere, trauma e vulnerabilità , stress ed empowerment; negli ultimi anni il concetto di resilienza viene spesso utilizzata in economia; in informatica viene usato all'opposto per indicare l'indice di fragilità. In psicologia si fa invece uso del termine resilienza per esprimere la capacità umana di far fronte in maniera positiva alle difficoltà coltivando le risorse interiori, ripristinando l'equilibrio psico-fisico precedente alla crisi con la possibilità di migliorarlo. A grandi linee possiamo distinguere tra resilienza individuale e collettiva:
• RESILIENZA INDIVIDUALE: resilienza intesa come qualità individuale in quanto riassume un complesso di capacità in grado di mettere la persona nelle condizioni di reagire con attiva flessibilità ai cambiamenti e alle difficoltà esistenziali;
• RESILIENZA COLLETTIVA: resilienza come qualità collettiva caratterizzata dalla capacità di reazione nelle situazioni di difficoltà, orientata al bene comune e guidata da principi solidali, cooperativi, collaborativi, che evolve e si sviluppa nel mutuo aiuto con la mobilitazione di risorse relazionali, con la promozione di responsabilità per il benessere delle persone e della stessa comunità di appartenenza (territoriale, aziendale, sociale).
Ovviamente tutti siamo influenzati da entrambi questi livelli di resilienza; sia a livello individuale che collettivo essere dotati di resilienza significa avere la capacità di affrontare le avversitá della vita, superarle e uscirne rinforzati o, addirittura, trasformati. Arriva una crisi, irrompe nella nostra vita, rompe i nostri schemi abituali: la rottura crea paura e insicurezza, la resilienza è alla base della nostra capacità di flessibilità, della possibilità di reagire positivamente a scapito delle difficoltà, della voglia di costruire utilizzando la forza interiore propria degli essere umani, della capacità di affrontare gli avvenimenti dolorosi e di risorgere dalle situazioni traumatiche (principio storicamente dimostrato nei momenti di stragi mondiali e di genocidi provocati dall’uomo).
Essere resilienti non significa solo sopravvivere a tutti i costi, ma anche avere la capacità di usare l´esperienza nata da situazioni difficili per costruire il futuro. Il tema della resilienza deve molto allo psicologo rumeno Boris Cyrulnik (figlio di deportati ad Auschwitz che riuscì a fuggire dal treno diretto ai campi di concentramento); nell’ultimo decennio sono stati condotti comunque moltissimi studi e ricerche su questo argomento e sembra proprio che ogni persona possegga questa caratteristica, ma da ciascuno di noi dipende che possa essere sviluppata, se ci concediamo la possibilità di farlo, magari scegliendoci con cura, attenzione ed amore le persone di cui ci circondiamo. Chi è più resiliente ( ovvero più resistente agli urti!) sembra essere dotato di una buona capacità di: introspezione (la capacità di esaminare sé stessi, farsi domande e rispondersi con sincerità), indipendenza (la capacità di mantenersi a una certa distanza, fisica e emozionale, dei problemi, ma senza isolarsi), interazione (la capacità si stabilire rapporti intimi e soddisfacenti con altre persone) iniziativa (la capacità di affrontare i problemi, capirli e riuscire a controllarli) creatività (la capacità per creare ordine, bellezza e obbiettivi partendo dal caos e dal disordine) allegria (disposizione dello spirito all’allegria, ci permette di allontanarci dal punto focale della tensione, relativizzare e positivizzare gli avvenimenti che ci colpiscono). Non possedere delle buone capacità in quest’ambito non significa che non si possano sviluppare. Bisogna mettersi in gioco, tentare; i primi tentativi saranno forse un po’ fallimentari, ma non bisogna arrendersi, il primo passo per rinforzare la propria resilienza e quindi resistere agli urti, è credere di potercela fare. Mi tornano in mente le parole di Holderlin citate da Morin : “se cresce il pericolo, cresce anche la salvezza”; è così, più le nostre vite vanno in crisi, più la nostra società diviene precaria e pericolosa, più dobbiamo porre attenzione alle nostre possibilità di salvezza, di resistenza.
Ho esitato un po’ prima di decidere di inserire un post su questo tema; non perché non lo ritenessi importante, anzi. Le mie esitazioni erano legate a due motivazioni principali. A volte, quando mi soffermo ad ascoltare il punto di vista del lettore o più in generale di chi non ha molte conoscenze in campo socio-psicologico, parlare di costrutti quali nel nostro caso la resilienza, suona un po’ come parlare della scoperta “dell’acqua calda”; ho ad esempio sentito dire che un tempo questa tanto rinomata resilienza si chiamava semplicemente speranza, e forse è vero; ma è vero anche che studiare, comprendere e soprattutto diffondere informazione su quelle caratteristiche che sono alla base del nostro senso di speranza, di ottimismo, di capacità di reazione, o della nostra resilienza, che dir si voglia, è un buon modo per diffondere speranza e fornire strumenti psico-emotivi per affrontare la crisi. Un’altra mia esitazione era poi dettata dal fatto che talvolta anche le nostre scienze psicologiche e sociali tendono in qualche modo a “far tendenza”, a parlare dell’argomento di cui più si parla, perché è commerciale, perché fa effetto. E, insomma, aggregarmi alla moda “resilienza”, non mi convinceva più di tanto; avevo come una sorta di profondo rispetto verso questa meravigliosa capacità umana di reagire, che non avevo voglia di parlarne più di tanto: era un po’ come voler proteggere qualcosa che si ritiene molto prezioso da una sovraesposizione che rischia di rovinarlo e sminuirlo. Ho deciso comunque di dedicare all’argomento solo un piccolo spazio, come a dire “sappiate che se è umano cadere in crisi, sia a livello individuale che collettivo, è altrettanto umano poter reagire, e se forse intuitivamente lo sapevamo tutti, ora sembra anche provato scientificamente”. E così se la crisi dovesse attraversare le vostre giornate, chiamatela speranza o chiamatela resilienza, ma sappiate che esiste, che potete trovarla. Tenete sempre presente che un periodo negativo e’ comunque temporaneo quindi superabile; se invece si tratta di una situazione permanente, che non si può cambiare, bisogna allora imparare a gestirla. Perdersi nei “devo, avrei dovuto” ecc., non sarà molto produttivo, piuttosto può servire non fare tutte le cose da soli e chiedere aiuto quando se ne ha bisogno.
Personalmente credo che esista il diritto di dolersi della propria crisi e in fin dei conti anche quello di non volerla superare; basta accettare la propria condizione, le conseguenze, prenderne atto e assumersi le proprie responsabilità. Ma ciò che mi porta ad amare la mia professione ed il genere umano, al di là di tutto il brutto e terribile di cui può rendersi responsabile o che può subire, è quella meravigliosa capacità di reagire e riprendersi in mano la propria vita. Non credo che rapportare la propria crisi ad una crisi che può essere considerata più grave possa consolare qualcuno; vedere anche da vicino il dolore altrui, considerare quanto male c’è nel mondo non può e non deve bastare a nessuno per affrontare la propria personale crisi; certo può forse, in taluni casi servire a ridimensionarne l’entità. Insomma non si può amare la propria vita, crisi comprese, perché” c’è chi sta peggio” ma credo che una delle cose più utili, sempre, ma soprattutto nei momenti di dolore e crisi è quella di non chiudersi nel proprio piccolo o grande mondo di dolore: bisogna guardarsi dentro nella convinzione che c’è un punto da cui ripartire, una risorsa forse inesplorata che aspetta solo di essere messa in gioco. Ho visto gente sprofondare nella crisi per situazioni che altri avrebbero considerato assolutamente futili (non potersi più comprare vestiti firmati, dover vivere in una casa più piccola ecc.) e persone colpite da traumi gravi e ripetuti resistere, portando i segni, ma senza arrendersi alla crisi e alla violenza della vita; così come ho visto persone crollare definitivamente sotto il peso delle tragedie da cui sono stati colpiti, ed altre imparare dalle piccole crisi quotidiane ed inventarsi una nuova vita e resistere anche “schiaffi”più forti che la vita gli ha riservato in un secondo momento. Ognuno ha la sua vita, la sua crisi, la sua resilienza; si tratta, se lo si vuole, di resistere agli urti e riorganizzare la propria vita. Non posso dire da dove e come ripartire, non c’è un’indicazione valida per tutti, bisogna esaminare cosa c'è intorno (persone, situazioni) e camminare sempre su un doppio binario: il mondo interiore del trauma, della propria piccola o grande crisi da una parte, e le risorse, le competenze e le abilità che si sono sviluppate, o che si possono sviluppare dall'altra.

Per chiudere questo post, pubblico qui di seguito un mio articolo di qualche anno fa ( Psicologia in Movimento, 2005); quando penso alla resilienza non posso far a meno di pensare alle donne di cui parlerò qui di seguito. Come dicevo prima, non credo che guardare all’esperienza di altri, in questo caso delle madri argentine, possa servire ad attenuare i toni della propria crisi; anzi talvolta fare un confronto con situazioni così grandi ( nel loro dolore e nella loro forza), serve solo a dirsi che non si ha una forza del genere, che non si è così in gamba, che si tratta di persone eccezionali. Ma è proprio per questo (oltre al fatto che è uno degli articoli a cui sono più legata) che ho scelto di trascrivere qui di seguito un articolo sulle madri argentine; donne come tante, madri, mogli, dinanzi alle quali viene difficile pensare che non si tratti di donne eccezionali; ma il punto è che non può esserci confronto tra storie diverse, vite diverse, crisi diverse, non può e non deve esserci confronto ma di certo si può apprendere e si può trovare uno stimolo in più per ridimensionare (se è il caso) la propria crisi, o per affrontarla a testa alta. Ho scelto le madri di Plaza de Mayo perché mi sono appassionata molto alla loro storia; in questo contesto, queste donne straordinarie sono comunque solo un esempio che può servire come esempio di forza, coraggio e orgoglio, insomma, di resilienza.

“Il folle coraggio
Giugno 2005: alcune donne, settant’ anni o poco più, gambe doloranti, valigia semivuota, un fazzoletto in testa e tanta forza, partono da Buenos Aires, destinazione Italia; si fermano solo due giorni, non per lavoro, non per motivi di salute, non per far visita ai loro cari, non per svago, ma per parlare. Viaggio atipico, direi! Ma è proprio questo ciò che vogliono queste donne: non alloggi, non denaro, ma possibilità di parlare e raccontare, la possibilità ‘di seminare ideali per coltivare speranze’, così dicono. E così dicono da più di trent’anni, da quando insieme, un gruppo di donne, non militari, non politicanti, non imprenditrici, ma donne, madri e mogli, hanno compiuto un semplice gesto: sono scese in piazza per sapere, avere giustizia e raccontare al mondo intero. Hanno raccontato il loro dolore e la loro forza, la loro umanità e l’atrocità dei fatti che stavano vivendo, e solo così hanno potuto sapere: hanno saputo di figli e mariti scomparsi, uomini torturati nei campi di concentramento e disseminati nell’intero paese, gettati in mare con i ‘voli della morte’; tutto questo, ‘le madri di Plaza de Mayo’ l’hanno raccontato e, come dice Daniela Padoan, il loro è divenuto in qualche modo ‘un racconto sulla resistenza: la resistenza della vita sulla morte, del dar vita materno sul dar morte dei regimi’. Le madri di Plaza de Mayo, hanno avuto la capacità di radunare in quella piazza tutta la forza, il dolore, la rabbia, l’abbattimento, il coraggio, la paura, l’amore e l’odio della loro storia, ed hanno saputo trovare la propria verità. Da ventotto anni, ogni giovedì, scendono in piazza e nel frattempo, molti di quelli che le chiamavano ‘le pazze’, hanno smesso di farlo: ‘ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse un’offesa. Certo ci mettevano dentro tutti i giovedì, e noi ritornavamo. Ci dicevano, eccole lì, le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano. Ma noi sapevamo di essere pazze d’amore, pazze del desiderio di ritrovare i nostri figli…E poi perché no? Un po’ di pazzia è importante per lottare. Abbiamo rovesciato il significato dell’insulto di quegli assassini. Non ci offendeva più che ci chiamassero pazze. Per fare quello che abbiamo fatto, quello che continuiamo a fare dobbiamo essere un po’ pazze. La follia è importante. A volte sono proprio i pazzi, insieme ai bambini, a dire la verità’ (Hebe de Bonafini, presidente delle madri di Plaza de Mayo)’. Queste donne hanno trovato il folle coraggio di raccontare la loro storia e di mostrare la verità; hanno saputo lacerare barriere di indifferenza e di violenza; hanno saputo amare e lottare; hanno saputo amare e lottare; hanno saputo resistere, andare avanti e continuare ad amare; hanno saputo mettersi in marcia e viaggiare, solo per parlare e raccontare. ‘La ùnica lucha que se pierde es la que se abandona’: l’unica lotta che si perde è quella che si abbandona usano dire; credo che Freud, Jung, ed altri grandi della storia della psicologia, non avrebbero potuto insegnarci di meglio e credo che ognuno di noi, quando stenta a credere di potercela fare, quando pensa di non poter più amare, quando sta rinunciando alla sua personale storia o ad una significativa lotta, può anche provare a fermarsi ed ascoltare il folle coraggio che echeggia dall’Argentina, il coraggio che non si arrende alla disperazione, quello che queste donne semplici ci hanno mostrato e raccontato e che ognuno di noi nei luoghi dell’anima o nelle piazze di tutto il mondo, credendoci, può ritrovare (Di Nardo, 2005)”.

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