martedì 28 settembre 2010

Crisi e lavoro




Crisi e lavoro

Troppo lavoro, nessun lavoro, un lavoro che non soddisfa, un lavoro che non basta ad arrivare a fine mese, un ambiente di lavoro in cui si vive male: tante sono le situazioni che possono legare una condizione di crisi ad una situazione lavorativa (o la mancanza di lavoro). Certo nella società odierna la motivazione principale di crisi spesso è causata dalla disoccupazione, condizione che si inserisce a sua volta all’interno di un quadro più generale di un’economia in crisi, un’economia sempre più globalizzata i cui meccanismi sembrano crollare sempre più spesso anche in seguito ad errori di valutazione e alla malafede con cui taluni, anzi molti, agiscono.
Fondamentalmente il lavoro, laddove si scelga di svolgerne uno, con le dovute differenze da persona a persona e da lavoro a lavoro, svolge delle funzioni: tiene occupati, permette un guadagno, evita la noia, struttura il tempo, dà significato, permette integrazione sociale, è fonte di identità. Si dice anche che il lavoro sia fonte di creatività e maestria e che mantenga in salute, si sostiene insomma che in vario modo il lavoro nobiliti l’uomo; certo, è difficile considerare come effettiva questa potenzialità del lavoro soprattutto per alcune categorie di lavoro e ancor più se si considera il fatto che ogni anno il numero di morti sul lavoro continua a salire. Se pure di lavoro si può morire, la sua mancanza o l’insoddisfazione verso la propria realtà lavorativa possono essere una seria fonte di stress, senso di impotenza, irritabilità, ansia e preoccupazione.


Qui di seguito, apro delle “finestre” sul mondo del lavoro, a titolo ovviamente esemplificativo, ma non esaustivo.

Crisi e tipo di lavoro:

Talvolta la crisi, non proviene dalla mancanza o dalla perdita di lavoro, ma dall’insoddisfazione verso il tipo di lavoro che svolgiamo. A volte abbiamo lasciato da parte le nostre aspirazioni e abbiamo scelto la certezza del soldo, la concretezza del lavoro sicuro, del lavoro che ci permette di conciliare i nostri orari con la famiglia o che più si addice ad uno stile di vita che ci è consono (o che almeno siamo soliti considerare tale); oppure abbiamo invece scelto un lavoro rischioso, avventuroso, e la certezza e la sicurezza che altri lavori permettono, iniziano a “farci gola”. E così, a volte, più o meno all’improvviso il “perfetto meccanismo si inceppa” e ci ritroviamo con un alto livello di frustrazione e col desiderio di lasciare tutto, maledicendo ogni singola giornata lavorativa e la “gabbia d’oro” in cui ci siamo più o meno volutamente rinchiusi. Altre volte ancora, abbiamo valutato consapevolmente e attentamente le nostre scelte, tuttavia l’esigenza di cambiamento irrompe prepotentemente nella nostra vita e ci mette davanti a un bivio con due direzioni: restare dove si è o prendere una nuova strada.

Dobbiamo tener presente che sul modo di “vivere” e percepire la propria dimensione lavorativa influiscono una serie di fattori: predisposizioni individuali, contesto sociale, contesto famigliare, bisogni concreti (denaro) e bisogni irrazionali (gratificazione, autostima, riconoscimento sociale, immagine, ecc.). L’ideale sarebbe che bisogni razionali ed irrazionali coincidessero sempre, ma tuttavia questa è anche la situazione più difficile da realizzare, e così talvolta ci tocca essere “sballottati” nel conflitto tra “cuore e ragione” e per di più, soprattutto quando siamo in crisi, le ragioni della mente e le ragioni del cuore, non sempre “ci parlano” chiaro, anzi ci creano più confusione che mai. Spesso, infatti, quando il vissuto che ci manda in crisi è l’insoddisfazione verso il lavoro, dietro questo senso di frustrazione ci sono bisogni emotivi non ben decifrati o esigenze razionali a cui ci costringiamo a rispondere in maniera altrettanto razionale. Le situazioni possono essere le più disparate, di certo l’atteggiamento che conviene assumere è quello di un’attenta analisi critica e magari si può anche richiedere una consulenza ad un esperto che ci faciliti nel rendere consapevoli i nostri bisogni e i nostri motivi di crisi. Dobbiamo tener presente che una volta decifrati i motivi della crisi, ci toccheranno delle scelte; le scelte definitive e categoriche, vanno ben ponderate, bisogna valutare rischi e vantaggi e se il “gioco vale la candela” si può scegliere di attuarle. Certo non sempre e per forza la soluzione alla crisi deve essere una scelta definitiva, talvolta si può trovare una soluzione più morbida. Ad esempio se il desiderio maggiore è guadagnare di più, è necessario capire quale sia la strada per farlo: un doppio lavoro, un avanzamento di carriera, un lavoro diverso, un’attività parallela. Se il desiderio è dare spazio alla creatività, si può radicalmente cambiare lavoro o magari mantenerlo, ritagliandosi però degli spazi extralavorativi in cui dare libero sfogo alla creatività. Il rischio maggiore in questo genere di crisi, è che la paura del cambiamento (il senso di responsabilità per alcuni, l’incapacità di assumersi responsabilità per altri) ci paralizzi e si resti lì a buttarsi giù e raccontarsi insoddisfatti, senza agire scelte costruttive. L’atteggiamento più sano è invece quello di decifrare i bisogni e vedere quali possibili strade si possono percorrere per soddisfarli. Si è visto che molto spesso chi osa ottiene risultati molto più soddisfacenti di chi resta imbrigliato nelle proprie paure; tuttavia, come già detto, le scelte categoriche non fanno per tutti, si può allora scegliere qualche piccolo adattamento creativo da apportare alla propria vita lavorativa e non.

Può anche succedere che la crisi che avvertiamo come lavorativa e che ci raccontiamo come tale, nasconda invece altre problematiche che però non ci va di affrontare. In definitiva, può succedere che ci mettiamo a lamentarci di come ci sta distruggendo il lavoro perché è più facile dare la colpa al lavoro piuttosto che ammettere che viviamo rapporti non soddisfacenti, che mentiamo a noi stessi, che non abbiamo il coraggio di cambiare vita. Ascoltarsi, capirsi, è il primo modo per iniziare a valutare se è davvero sulla dimensione lavorativa che dobbiamo attuare un cambiamento o se invece sono altre le sfere della nostra vita che vanno riviste. E magari, passata la crisi, il nostro lavoro tornerà a sembrarci meraviglioso, o forse no, ma agiremo comunque con maggiore consapevolezza.
Un fattore che va senza dubbio preso in considerazione è che, ovviamente, non è detto che ciò che ci piaceva a vent’anni debba piacerci a quaranta, e allo stesso tempo, crisi di vita, eventi accidentali, possono influire notevolmente sul grado d soddisfazione verso il lavoro.
Può succedere che il cambiamento bussi alla nostra porta, bisogna capire quando è il caso di farlo entrare e quando è il caso di mandarlo via, non bisogna cambiare per forza ma a volte, invece, se si vuole vivere in maniera piena e soddisfacente, si deve.

Crisi e mancanza di lavoro:

I fattori di stress derivanti dalla disoccupazione sono diversi. Tra essi occorre considerare la diminuita disponibilità economica, la preoccupazione di non riuscire a far fronte alle scadenze finanziarie (spese per alimentazione, alloggio, mezzi di trasporto, ecc.), la comparsa di sentimenti di insicurezza per il futuro, la mancanza o perdita di scopi ed ambizioni che si correla a tale stato, come ad esempio la riduzione della vita sociale, la restrizione delle attività e degli interessi, la limitazione del senso di libertà personale. Può essere importante anche la paura di perdere parte delle proprie capacità professionali per il mancato uso, la comparsa di sentimenti di inferiorità, con diminuzione dell’autostima. Nello specifico, sembra che esistano alcune tipiche reazioni negative alla mancanza di lavoro:
• atteggiamento dipendente: affidarsi alle istituzioni è visto come l’unico strumento per inserirsi professionalmente;
• atteggiamento rivendicativo: le istituzioni sono percepite come responsabili del proprio disagio;
• atteggiamento rinunciatario:il lavoro è inutile, il mondo è pericoloso e ne va rifiutata la vicinanza ( reazione di comportamento asociale);
• innovazione: si recepisce l’importanza culturale della meta ma la poca enfasi sui mezzi legittimi e la mancanza di opportunità conducono all’uso di metodi alternativi, illegittimi;
• ribellione: la convinzione che il mancato raggiungimento delle mete prefisse dipenda dalla struttura della società porta a rifiutare ogni obbedienza alla struttura sociale.

Secondo Goffman la condizione di disoccupazione fa si che l’individuo sperimenti una sorta di “identità negata”; questa interpretazione della disoccupazione ci fa senza dubbio comprendere quanto possa essere difficile vivere la disoccupazione e perché spesso le persone senza lavoro finiscano con l’interpretare un ruolo vicario di “consulente”, pensionato, studente, per evitare l’erosione dell’autostima e la demoralizzazione. E’ innegabile: almeno per una grossa parte della nostra società occidentale, il lavoro definisce la nostra identità e leghiamo ad esso la nostra vita. Il punto è che, al di là delle inclinazioni personali (appassionati lavoratori o amanti del dolce far nulla) il lavoro ci serve, scandisce le nostre giornate ed è una dimensione strettamente collegata al nostro senso di autoefficacia. Molti sono gli studi attraverso i quali si sono osservati gli effetti della disoccupazione sulle persone; questi studi ci indicano che:

1. chi ha già sperimentato periodi di disoccupazione è meno stressato di chi è alla prima volta;
2. la differenza tra chi ha famiglia e chi non ne ha risulta esigua;
3. chi attribuisce il suo insuccesso ad un settore specifico della sua vita è più stressato di coloro che lo estendono alla vita in generale;
4. la passività è maggiore per chi è disoccupato da più tempo;
5. passare da un impiego all’altro può essere ancora più difficile se comporta un peggioramento delle condizioni lavorative;
6. le condizioni lavorative sono molto importanti per i disoccupati di età avanzata. Le pretese avanzate saranno sicuramente maggiori per i disoccupati che non sono alla loro prima esperienza lavorativa, che hanno lavorato per anni in uno stesso settore e hanno quindi maturato molta esperienza e che si sono costruiti nel frattempo una famiglia;
7. chi ha dedicato la sua vita ad un unico impiego può desiderare di conservare un’identità costruita in anni di carriera e scelte difficili (Sennett,1998); di conseguenza maggiore sarà il periodo di tempo trascorso a lavorare nello stesso settore, minore sarà la propensione ad accettare un lavoro diverso e ad uscire dalla disoccupazione.

Inoltre, sembra che per la persona disoccupata siano più importanti, nell’ordine: senso di soddisfazione personale, sentirsi utili, instaurare rapporti sociali, risolvere i problemi economici. Ed ancora, è stato visto che la forza del senso di autoefficacia è significativamente legata al numero di attività di ricerca del lavoro (Decker, 1963) e a un minor impatto degli effetti negativi di situazioni lavorative stressanti (Jimmieon, 2000)
Per Seligman le persone dopo ripetuti fallimenti nel raggiungere dei loro obiettivi, si autoconvincono di essere impotenti di fronte alle avversità, rinunciando ad ogni attività che potrebbe migliorare la condizione, soprattutto quando gli insuccessi sono attribuiti a un fattore causale stabile nel tempo e interno. Ciò significa che se i ripetuti insuccessi nella ricerca del lavoro o nell’esito dei colloqui sono attribuiti a carenza di capacità personali e non a sforzo insufficiente o elevata difficoltà del colloquio stesso, il disoccupato può sentirsi impotente e decidere che non vale più la pena tentare. La decisione di rassegnarsi sarà tanto più probabile quanto più sarà vicina l’età del pensionamento, perchè l’eventuale buon esito della ricerca di un lavoro sarà percepito come troppo temporaneo per valerne la pena.

Mi sembra qui fondamentale citare quello che ci ricorda Sen (1997)(se pure il suo discorso si inserisca in uno di più ampio respiro di economia e politiche dell’occupazione): poiché le persone imparano facendo, l’inattività forzata dovuta alla disoccupazione fa sì che disimparino non facendo; meno ci mettiamo alla prova, meno facciamo, meno apprendiamo e meno crediamo di poter fare. In effetti un’altra reazione alla disoccupazione è la restrizione dell’azione (Agency restriction theory): si restringe il tipo di azioni possibili (Fryer, 1986) e si scende a compromessi con i propri progetti, con la propria vita. Nella condizione di disoccupazione subentrano quindi due forma di restrizione dell’azione: una oggettiva, che possiamo definire forzata dalla condizione stessa di disoccupazione, per cui, non avendo un lavoro non ci sperimentiamo, non ci formiamo e siamo sempre più “tagliati fuori dal mercato”; l’altra forma di restrizione dell’azione, fa si che, al di là delle effettive possibilità, la persona disoccupata inizi a viversi come vittima del sistema e a dirsi che tante cose per lui che è disoccupato non sono possibili.

Ciò che devasta maggiormente la persona con disoccupazione è proprio la sensazione di perdere il controllo della propria vita, ed iniziano così a venir meno adeguate strategie di coping.

Ciò che invece è necessario fare è:

• evitare di restringere le azioni;
• evitare schiavitù denaro,chiedere, attivarsi ( vedremo meglio più avanti ma, ad esempio esistono una serie di attività del tipo più disparato che si possono fare in maniera gratuita);
• non lasciarsi soli, appoggiarsi (condividere le proprie problematiche è fondamentale, sia con persone che le vivono anch’esse in prima persone –con cui si avverte quindi di essere “sulla stessa barca”- sia con persone che invece non vivono la stessa situazione e proprio per questo possono esserci maggiormente di sostegno e fornirci strategie alternative al nostro modo di affrontare il problema);
• attivare risorse e strategie alternative.

- Segue.

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