lunedì 4 ottobre 2010

Crisi e Lavoro - Parte 2

Continuiamo il discorso incominciato nel precedente post, affrontanto altri temi riguardanti la Crisi e il Lavoro.

Crisi, lavoro, mobbing:

Il termine mobbing non è usato in tutti i Paesi. Nel mondo anglosassone e in Giappone ad esempio, si usa il termine bullying e bullies per indicare gli “aggressori da ufficio”. Ciò dipende dal fatto che i primi studi sul fenomeno, risalenti agli inizio degli anni Settanta, sono stati condotti tra gli scolari, e solo in seguito si è ritenuto opportuno distinguere tra ambiente lavorativo e ambiente scolastico-giovanile. I francesi preferiscono invece il termine harcèlement, letteralmente, “molestia”. Mobbing deriva dall’inglese to mob (= assalire, attaccare, accerchiare). Il termine è tratto dall’etologia di Konrad Lorenz, in riferimento ad un particolare comportamento del branco (= mobb, banda) che si manifesta nel coalizzarsi contro un elemento “diverso” o “turbatore” dell’equilibrio del sistema-gruppo, per eliminarlo o tentare di eliminarlo aggressivamente.
In generale il termine inglese veniva usato da buona parte dei biologi dell'800 per descrivere il comportamento degli uccelli che per difendere il nido volano attorno all'aggressore. Il "terrorismo psicologico sul posto di lavoro" fino a qualche tempo fa era un fenomeno del tutto ignorato. Soltanto negli anni Ottanta il termine ha cominciato ad indicare la persecuzione di cui alcuni erano vittime, sul posto di lavoro. Le vittime del mobbing soffrono di stress e per loro andare al lavoro diventa problematico.

L'ambiente non è più accogliente, il solo affrontare certe persone, o certi incarichi, mette ansia. Ci si sente sempre sotto giudizio, attaccati, criticati. Spesso, del tutto ingiustamente. Si comincia a dubitare di sé, a non riuscire a gestire la situazione. Sino alla sconfitta. Che consiste nell'essere licenziati, nell'andarsene o nel sopportare una situazione insopportabile.
Alla fine degli anni Ottanta Heinz Leymann, il primo ricercatore che ha prodotto risultati consistenti sul fenomeno, ha sviluppato un questionario che ha poi fornito le categorie per classificare le diverse azioni vessatorie. Il modello si chiama LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terrorism) e contempla cinque diversi “attacchi”:

1. attacco alla possibilità di comunicare: la vittima è esclusa dalle discussioni quotidiane, rimane all’oscuro di informazioni relative all’attività lavorativa, è isolata e non ha appoggi;
2. attacco alle relazioni sociali: si arriva a creare intorno alla vittima un isolamento sociale pressoché totale, anche fisico se si riesce a relegarla in posti isolati dove essa non può comunicare con nessuno;
3. attacco all’immagine sociale: si attivano un insieme di azioni finalizzate ad indurre la vittima in errore (ad esempio fornendo informazioni o richieste contraddittorie), costruendo attorno a questa un’immagine negativa di incapacità e inaffidabilità;
4. attacco alla qualità dell’attività professionale e privata: le indicazioni mobbizzanti, impartite con continuità si riferiscono a mansioni particolarmente dequalificanti o addirittura insensate per l’azienda;
5. attacco alla salute: i capi ordinano ai subordinati di operare con macchine pericolose e in condizione di rischio elevato.

Proprio per la complessità del fenomeno, per la presenza di molteplici attori, e per le azioni vessatorie spesso indirette che caratterizzano le azioni più sofisticate, è difficile arrivare ad una definizione condivisa di mobbing. Sembra tuttavia che ci sia un accordo sul fatto che il mobbing si ha quando le azioni descritte sono condotto con frequenza piuttosto alta (almeno una alla settimana), protratte nel tempo (almeno sei mesi). In generale, è diffusa, tra gli esperti, l'opinione che la prevenzione del mobbing debba partire dal posto di lavoro e dal gruppo. La giurisprudenza si affida all’accertamento dell’esistenza di un danno biologico che deve rispondere a una serie di criteri su cui, in questa sede, sorvolerò. Mi limiterò qui a dire che per la complessità delle problematiche, l’approccio al fenomeno del mobbing deve essere multidisciplinare e coinvolgere: il medico del lavoro (che valuterà i rischi lavorativi tenendo in considerazione l’alterazione delle condizioni di benessere psico-fisico e identificare le eventuali anomalie nel lavoro), lo psichiatra o lo psicologo (che deve fare una diagnosi clinica tra disturbi dell’adattamento che si risolvono nel giro di 6 mesi dall’esordio dei fattori stressanti), il medico legale (dovrà cercare di inquadrare la vita lavorativa antecedente e attuale della vittima, la presenza di malattie insorte in seguito a questa situazione e dimostrare il nesso tra azioni che ledono il soggetto e danno subito). In questa sede voglio comunque indicare una serie di situazioni che possono fungere da campanello di allarme per i lavoratori:

• si viene emarginati sul lavoro
• le mansioni vengono diminuite
• non vengono più assegnati compiti lavorativi fino a quel momento svolti
• si viene trasferiti continuamente da un reparto all’altro
• vengono assegnati compiti dequalificanti rispetto al proprio profilo professionale
• vengono affidati compiti eccessivi in termini di quantità o di capacità personali
• si viene esclusi da attività di formazione e aggiornamento professionale
• si è continuamente tenuti sotto controllo

L’atteggiamento più sensato e realistico da assumere, qualora si abbia sentore di mobbing è capire se si tratta di normali contrasti, risolvibili facilmente, o di vero mobbing. Quindi, bisogna agire su se stessi. Come infatti accade nella maggior parte dei casi in cui qualcuno è vittima di un persecutore, il persecutore acquista tanto più potere quanto più il perseguitato gliene lascia acquistare. Chi si sente bersaglio della persecuzione ne deve parlare apertamente e deve evitare di chiudersi in se stesso; le eventuali critiche devono essere fatte direttamente alla persona interessata, in modo che possa replicare. Allo stesso tempo è necessario non focalizzare tutte le proprie energie solo sulle problematiche legate al lavoro, molto spesso è proprio restando sempre a “guardare” un problema che lo ingigantiamo; inoltre la conseguenza di questo genere di atteggiamenti è che amici e parenti che inizialmente sostengono chi è mobbizzato (o sospetta di esserlo) o si stancano di vedere il proprio amico o parente così sovraccarico e lo lasciano solo col suo problema, oppure nel tentativo di aiutarlo, finiscono per alimentare le sue condotte irrazionali ed esasperano il problema.
Per schematizzare, se si crede di subire ingiustamente critiche, è consigliabile:

valutare le critiche: a volte, può essere un nostro atteggiamento a provocare la reazione dell'altro, bisogna pertanto valutare prima di tutto il proprio atteggiamento: se si è sinceri, cortesi, se per primi si agiscono critiche poco costruttive, quali atteggiamenti si possono migliorare, quali cambiare e in che modo. Cambiando noi stessi inevitabilmente produciamo un effetto diverso sull’altro.
reagire alle critiche: laddove si è certi che esistano critiche immotivate o esagerate, bisogna rispondere in maniera assertiva, facendo in modo che gli altri sentano. Lo stile migliore di risposta è senza dubbio uno pacato ma deciso; bisogna evitare toni negativi ed inutili circuiti di discussioni astiose o sopra le righe. Bisogna non farsi avvilire dalle critiche ma continuare a fare il proprio lavoro meglio. E’ assolutamente sconsigliato porsi nel ruolo di vittima impaurita o lamentosa, se necessario si deve affrontare il "mobber", e parlarne con i diretti superiori senza entrare in un circuito del "pettegolezzo" e cercare complicità. Bisogna infine ricordare sempre di cercare di dare ad ogni cosa il giusto peso. Almeno la metà dello stress di cui siamo vittime, dipende proprio da noi.
distinguere l'aspetto personale da quello professionale: è necessario imparare a distinguere l'eventuale insuccesso lavorativo dalle capacità della persona, e cercarne le cause oggettive. Mantenere la fiducia in se stessi e saper valutare le vere cause è il modo migliore per risolvere il problema.

Crisi, lavoro e stress:

oggi, lo stress collegato al lavoro è diventato una delle maggiori preoccupazioni per gli imprenditori che ne subiscono i costi e per tutti i cultori della prevenzione specie se operano in Organizzazioni Governative o Internazionali. Gli studi effettuati dalla Fondazione Europea tra il 1996 ed il 2000 hanno evidenziato come almeno il 28% dei lavoratori abbia in quegli anni denunciato sintomi collegati allo stress (con maggior frequenza disturbi muscoloscheletrici) e altre indagini abbiano pure segnalato come almeno il 50 - 60% delle giornate perse sia collegato allo stress da lavoro definito come un “insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche collegate ad aspetti negativi e nocivi del contenuto, della organizzazione e del luogo di lavoro”. Lo stress è stato sempre più oggetto di ampia trattazione in ambito di relazioni industriali nazionali ed internazionali, al punto che è stato siglato un Accordo Internazionale al quale ha poi (dopo alcuni anni) fatto seguito in Italia la firma di un Accordo Interconfederale sullo stress mentre, a livello legislativo, gli ambiti di tutela sono stati meglio precisati e definiti nel D.Lgs. n. 81/2008 proprio con la necessità di includere nella valutazione dei rischi da lavoro in azienda, le condizioni che possono determinare situazioni di stress collegate. Negli ultimi anni inoltre il progresso, l’acquisizione di nuove tecnologie, le modifiche apportate all’organizzazione del lavoro, come la maggiore flessibilità hanno determinato la crescente esigenza di sviluppare interventi e modalità di lavoro diversi dal passato. Tali modelli sono caratterizzati da una più ampia disponibilità e da una maggiore specializzazione nel lavoro e ai quali si aggiungono impegni di varia natura: attività di studi e ricerche, utilizzo di nuove tecnologie, percorsi di aggiornamento, tempi di trasferimento da e per le sedi di lavoro, impegni familiari e sociali. Il sovraccarico di richieste così determinato è stato ed è causa di fenomeni che definiamo con il termine “stress” e che hanno crescente importanza nella valutazione delle condizioni di benessere dal momento che, parallelamente, assistiamo ad un decremento costante dei rischi “tradizionali” proprio per l’accresciuta consapevolezza dei fattori di nocività, per la sensibilizzazione ai problemi della salute e per le innovative e migliori tecnologie via via adottate nel tempo in ogni settore produttivo.
Hans Selye, un medico austriaco considerato il padre dell’attuale concetto di stress, distingueva tra eustress e distress.

Lo stress acuto o eustress consiste in un:

- grado ottimale di tensione o sollecitazione esterna che si risolverebbe una volta raggiunto l’obiettivo;
- difesa dalla monotonia e attivazione di risorse utili;
- affinamento delle capacità di attenzione e concentrazione;
- stimolo all’apprendimento ed alla memoria;
- stimolo facilitatore nella risoluzione creativa dei problemi.
Lo stress cronico o distress consisterebbe in:
- continua esposizione a stimoli esterni;
- eccessiva attivazione fisiologica e psichica;
- forzatura esagerata ed innaturale delle energie organiche;
- prolungato processo di sopportazione e resistenza;
- periodo di logorio ed esaurimento.

In generale possiamo affermare che una parte di stress (concettualmente assimilabile al concetto di sana attivazione per raggi ungere obiettivi lavorativi) , l’eustress è fonte di positività per l’individuo, il distress può invece essere fonte di negatività e quindi causa di infortuni, di scarsa produttività e di assenteismo. Lo stress nei luoghi di lavoro può dipendere da diverse cause, sostanzialmente da problemi di inadeguatezza premiale (benefits, servizi, salari, contratti precari, pensioni ecc.) strutturale (agenti nocivi, ambienti inidonei, macchine obsolete), relazionale (rapporti mal gestiti in senso verticale o orizzontale) o organizzativa (overload, turni, ritmi, pause, precarietà ecc.). Ad esempio, il rumore eccessivo può rendere difficile la concentrazione e la comunicazione con i colleghi mentre un lavoro prolungato come quando si realizza per protrazione di straordinari o per attività oltre 48 ore settimanali è causa di rischio raddoppiato per decessi dovuti a malattie cardiache rispetto a coloro che lavorano meno di 40 ore, con un aumento del rischio se il ritmo di lavoro è molto sostenuto. Ancora, la presenza di elevate responsabilità nei confronti di terzi come avviene per controllori di volo, piloti, personale delle ambulanze, medici e infermieri, può determinare elevati livelli di stress come anche l’assunzione di elevate responsabilità di gestione in contesti che non offrono un adeguato supporto e sicurezza, oppure allorché i rapporti con superiori o colleghi sono caratterizzati da competitività, scarsa considerazione o incomprensione, quando il lavoro non offre adeguate garanzie di stabilità (es.lavori“atipici”) o sicurezza, o quando le possibilità di avanzamento professionale sono molto scarse, allorché vi è insoddisfazione per la mancata realizzazione personale, nonostante una discreta remunerazione.
Secondo il Documento di Consenso (2006) della SIMLII sulla “Valutazione, prevenzione e correzione degli effetti nocivi dello stress da lavoro” (Cesana & coll.) lo stress avrebbe grande importanza nei disturbi della funzione gastrointestinale, può contribuire anche a determinare la comparsa di patologie infiammatorie croniche intestinali, o l’esacerbazione del reflusso gastroesofageo come pure l’aggravamento o la comparsa di disturbi cutanei (psoriasi, orticaria, dermatiti eczematose). Recentemente poi, studi di psiconeuroimmunologia avrebbero mostrato che variazioni del comportamento e degli stati emotivi tipici delle situazioni stressanti indurrebbero complesse manifestazioni neuroendocrine che potrebbero modulare anche processi infettivi, allergici o addirittura anche neoplastici.
In situazioni di stress possono insorgere modificazioni dell’attività intellettuale con difficoltà a mantenere il ritmo di lavoro, comparsa di deficit mnemonici, attentivi, di concentrazione ed elaborazione delle informazioni. Le reazioni d’ansia, frequenti ove ci si accorga di non poter far fronte alle richieste di responsabilità, adeguatezza, urgenza, precisione e quindi alla conseguente comparsa di errori, ritardi,dimenticanze significative possono associarsi o determinare depressione, irritabilità, sofferenza, vissuti di colpa. Possono comparire in taluni casi disturbi del comportamento alimentare (più frequen-temente bulimia, raramente anoressia), o ci può essere abuso di sostanze psicoattive (tabacco, alcool, psicofarmaci) spesso in realtà motivate da stress prolungato, esaurimento fisico, necessità di veglia, insicurezza.
I disturbi del sonno sono frequente evenienza di situazioni stressanti. Possono manifestarsi in una forma comune di insonnia (difficoltà nell’addormentamento, risvegli frequenti, risvegli anticipati) oppure talvolta anche in sindromi più severe come gli incubi, il bruxismo, le ipersonnie, miocloni notturni. Ed i disturbi del sonno, secondo gli studi condotti, sarebbero più frequenti nei lavoratori manuali, con alto carico di lavoro, con basso supporto da parte dei colleghi.
Anche il burnout, quadro che descrive l’esaurimento fisico e mentale di operatori particolarmente esposti allo stress con soggetti o situazioni disagiate, è una patologia stress correlata che colpirebbe in particolare operatori motivati addetti all’assistenza e che si estrinseca con esaurimento emotivo, distacco, perdita di interesse verso le persone con cui si lavora, disaffezione, intolleranza, sensazione di fallimento, apatia talvolta aggressività e non di rado sintomi psicosomatici cardiovascolari, intestinali, cutanei e nervosi.
Alti livelli di stress sembra possano manifestarsi più frequentemente nei lavori con elevate sollecitazioni psicologiche, scarsa possibilità decisionale ed autonomia, scarso supporto dei colleghi. Ad esempio, una ricerca inglese del 1987 cita come“stressati”: minatori, poliziotti, agenti di custodia, edili (ma anche piloti,giornalisti, attori e medici) ove la tipologia delle attività prestate era caratterizzata da elevatissima responsabilizzazione, timore di errori, elevata e continua attenzione. Nel nostro Paese, tra i lavoratori particolarmente stressati sono inclusi controllori del traffico aereo, addetti alla guida di autobus (per elevata attenzione, turni, traffico, timore di aggressioni ecc.) addetti turnisti, lavoratori della sanità, insegnanti, forze di polizia, addetti ai call center (spesso privi di riconoscimento sociale e professionale, addetti ad attività ripetitive, frammentarie, oppure con necessità di elevate capacità di problem solving, esposti a critiche o doglianze degli utenti, controllati costantemente e sotto pressione operativa, spesso operanti in ambienti poco confortevoli e con turni gravosi).

Senza addentrarmi oltre in questa argomentazione, chiudo dicendo che tendenzialmente sovraccarico sul lavoro o la stessa disoccupazione, comportano un sovraccarico di distress (per tornare alle definizioni di Selye); chi si trova a vivere un momento di crisi, di forte stress, deve sforzarsi di alleggerire il proprio carico di distress, a favore dell’eustress e se il lettore vorrà rileggere le definizioni di distress ed eustress sopra riportate, è facilmente deducibile che ciò significa non restare sempre concentrati sugli aspetti negativi del problema, staccare da turni troppo pesanti o da esasperate ricerche di lavoro ( nel caso della disoccupazione), non assumere atteggiamenti vittimistici (o concederseli solo ogni tanto, è umano!), dare spazio alla creatività e attivare le proprie risorse.

Crisi, lavoro e società:

Affronterò più in là questo tema, per ora mi limito a poche brevi riflessioni. Nella nostra società il lavoro è tutto; chiediamo “ che lavoro fai?” così come chiediamo il nome, l’età ecc. a qualcuno che stiamo conoscendo. Eppure l’esempio di altre culture ci “racconta” che si può vivere anche senza incentrare tutto sul lavoro; la storia e i fatti odierni di crisi economica, ci dicono poi che il lavoro, non può essere tutto, perché se l’economia collassa, collassa anche il mercato del lavoro, ma non possono e non devono collassare le nostre vite. Non starò qui a discutere quante ore sia giusto lavorare; l’ideale sarebbe che tutti lavorassimo quanto ci basta per vivere ed essere soddisfatti; credo ci sia in ogni caso da far i conti con qualcosa: si può essere felici lavorando volontariamente più di dodici ore al giorno o lavorando solo poche ore. Si tratta di scelte e di esigenze concrete. Esistono imprenditori soddisfatti delle propria vita, così come operai soddisfatti del proprio mestiere e della propria vita; esistono poi imprenditori sull’orlo di una crisi di nervi ed operai costretti da un sistema marcio e dal bisogno di arrivare a fine mese a turni massacranti che mettono a rischio anche la loro salute. C’è chi deve rinunciare alle relazioni perché è ambizioso e vuole guadagnare sempre di più e c’è chi per uno stipendio minimo deve comuunque sosttoporsi a turni massacranti sopportando anche l’ansia di non riuscire a pagarsi tutte le spese, non avere certezze per il futuro e lasciare troppo soli i figli, un/una compagno/a. Ripeto, non credo si possa affermare con certezza quale sia la scelta giusta, quale lavoro si debba fare e quale no, la questione è che le moderne politiche per il lavoro sembrano sempre più allontanare l’individuo dalla dimensione della soddisfazione dal lavoro; il lavoro sicuro ed il posto fisso, i miti delle vecchie generazioni rappresentano ormai il fallimento per le nuove generazioni. Se le vecchie strategie collassano, c’è allora bisogno di nuove strategie, di nuova riflessione sul lavoro e sulle politiche per il lavoro. Chiudo invitando il lettore alla riflessione tramite le parole di Erich Fromm: “il problema in discussione tocca uno dei punti più dolenti della società contemporanea. Uno degli elementi psicologicamente più evidenti della vita moderna è il fatto che le attività, che costituiscono mezzi volti a fini, hanno sempre più usurpato il ruolo dei fini in se stessi, mentre codesti fini menano un’esistenza offuscata e irreale. La gente lavora per poter guadagnare denaro; fa denaro per poter fare, con esso , cose godibili. Nell’opera stanno i mezzi, il godimento, il fine. Ma che cosa, in concreto, accade? Si lavora per fare più denaro; si impiega il proprio denaro per fare ancora più denaro, e il fine- il godimento della vita- , viene infine perso di vista. Gli uomini hanno fretta e inventano cose per avere più tempo. E poi impiegano il tempo così risparmiato per precipitarsi a guadagnare ancora più tempo, finché si sentono tanto esausti, da non poter più usare il tempo che hanno risparmiato. Ci siamo ormai invischiati in una rete di mezzi, abbiamo perso la visione dei fini. Possediamo apparecchi radio in grado di portare a chiunque il meglio della musica e della letteratura. Ma ciò che ascoltiamo è invece, in larga misura, ciarpame a livello dei rotocalchi, o una pubblicità che è un insulto all’intelligenza e al buon gusto. Possediamo i più meravigliosi strumenti e mezzi che l’uomo abbia mai posseduto, ma non ci soffermiamo a domandarci a che cosa servano (Fromm,1971)”. Fromm scriveva queste parole ben più di qualche decennio fa, credo sia quanto mai giunto il tempo di prenderle in considerazione.

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